Roberto Toja
4 Maggio 2017
Warum Die Zeit?
Fotografie della Berlino Est
13 – 28 maggio 2017
Inaugurazione: sabato 13 maggio – ore 17:30
a cura di Giulia Grassi
testo e presentazione di Giulia Grassi
“[…] Per la prima volta mi sento
come uno che ha un certo tempo dietro di sé…
e questo tempo è la mia storia […]”
Da un film di Wim Wenders, Im Lauf der Zeit, Germania 1976
“Sono stato a cercare la mia Berlino” – racconta Roberto Toja – sfogliando il catalogo “Warum Die Zeit?” che raccoglie, della capitale tedesca, le immagini scattate nel 2009, “vent’anni dopo i primi disordini di quell’estate che portò al crollo del noto Antifaschistischer Schutzwall, vent’anni dopo dalla fine di una città, di una nazione, di un’Europa tagliata in due”. Una settimana di cammino e poco più di duecento scatti complessivi, sono bastati per elaborare un racconto che è testimonianza di storie, luoghi, esperienze, persone della Berlino Est. Il suo racconto fotografico inizia per suggestione di “immagini” non direttamente vissute, ma riportate, di quell’estate 1989: la porta di Brandeburgo illuminata, il risuonare delle parole cantate dai Pink Floyd nel testo “The Wall”, la visione di capolavori cinematografici come “Il cielo sopra Berlino” (1987) e “Le vite degli altri” (2006). Ma non vi è, nonostante tutto, nella sua fotografia, nessun tentativo di giudizio, di superficiale revival storico o di archeologica presenza di testimonianze materiali sopravvissute. Alla negatività del Muro che separa, Toja sembra sostituire, simbolicamente, la concreta e reale esistenza di molteplici “muri”, che sono, al contrario, fondamenta di case, di centri culturali, di edifici industriali, di crocevia e scalinate che uniscono i luoghi, piuttosto che dividerli. E questi stessi muri sono raccontati attraverso la quotidianità delle persone che li attraversano, li abitano, li vivono nella loro evoluzione e nel loro tramutarsi. Siamo abituati ad associare al concetto di tempo l’idea di un divenire, di uno scorrere, di un proseguire. Ed invece egli induce il nostro sguardo ad osservare immagini fisse, immobili, in cui il tempo è dato piuttosto dalle “stratificazioni” e dalle “trasformazioni” urbane e sociali che conservano, inevitabilmente, i segni di un cambiamento cercato e svelato dall’autore. Toja dimostra che per essere fotografo, ancora prima che l’occhio, è necessario il senso della Storia e il suo Tempo, come memoria collettiva del nostro vivere, perché “abbiamo tutti un certo tempo dietro di noi e questo tempo è la nostra storia”. Al fascino che suscita la fotografia in bianco e nero, Toja unisce un meditato equilibrio tra spazio urbano e presenza umana, in cui credo si possa leggere il significato più profondo e pregnante del tempo che attraversa, inesorabile, le esistenze, quelle stesse che cercano punti di riferimento, non solo nello spazio circostante, ma nello spazio vissuto. C’è, nella fotografia di Toja, il piacere di un istante rubato quasi per caso, ma che rappresenta, in quel momento, un’immagine fatidica, una traccia inconfondibile di se stesso e della propria natura. Non a caso Pio Tarantini, critico e fotografo contemporaneo, dando ragione alle specificità tecniche della sua fotografia, afferma che egli “realizza un reportage lento, non legato strettamente agli avvenimenti più eclatanti in corso ma che cerca nell’ordinarietà delle situazioni, inquadrature che vanno a comporre un racconto composito, dove la narrazione si dispiega in fotogrammi panoramici, quasi con reminiscenze filmiche, dove spesso sono presenti persone che occupano o attraversano la scena”[1]. Alla città, in genere fotografata come luogo dell’affollamento frenetico, si contrappone spesso, nel fotografo verbanese, la visione di una città metafisicamente deserta, luogo della solitudine e del silenzio. In questo senso sono concorde nell’affermare e nel vedere nella fotografia di Toja un certo sapore espressionista (si pensi alla tela “Canale a Berlino” di Erich Heckel del 1912), non solo per la particolarità delle angolazioni e dei punti di vista, ma anche, e soprattutto, per la “sprezzatura” esibita nel licenziare alcune opere compiute con pochi elementi, colti magistralmente nell’immediatezza di un attimo non ripetibile e non ritrovabile nel quale Toja si è insediato. “Insediarsi” significa, infatti, ritagliarsi un posto tra la genericità dei luoghi e questo è un gesto di fondazione, è il tentativo di creare una propria cosmografia, una cosmologia, una sorta di iconografia personale della città.
• Giulia Grassi
[1] Già Pio Tarantini individua nella Fotografia Street di Roberto Toja una similitudine con alcune situazioni scenografiche dei film di Wim Wenders.
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